Il suo ultimo libro, “Lettera a un giovane calciatore”, è un viaggio nella vera essenza del futbol.
di Sergio Taccone
E’ uno dei più eleganti narratori di futbol, un fuoriclasse del racconto sportivo, tra le penne più competenti, esperte e raffinate in tema di calcio. “Lettera a un giovane calciatore” è l’ennesimo capolavoro di Darwin Pastorin, giornalista e scrittore dal talento purissimo. Il suo libro, uscito di recente per Chiarelettere, è indicato a tutti coloro che amano la genuinità del gioco del pallone, lontano dalle diavolerie del marketing che ha sotterrato la poetica del dribbling e dai soldi che hanno confinato l’epica in una riserva indiana. Tanti gli spunti d’interesse. Ci sono gli omaggi ad Alvaro Mutis e Fabrizio De Andrè (“due che andrebbero letti e ascoltati almeno un’ora al giorno”), a Giovanni Arpino (uno dei maestri di giornalismo di Pastorin, l’altro fu Vladimiro Caminiti), Luis Sepùlveda (che aveva una predilezione per il ruolo del portiere, come Camus), Eduardo Galeano (chi ama questo sport non può non aver letto “Splendori e miserie del gioco del calcio”) e Gunter Grass (che leggeva allo stadio frammenti di un suo libro per aiutare la sua squadra del cuore).
C’è il commovente ricordo della Chapecoense, scomparsa quasi per intero nella tragedia del novembre 2016. Il viaggio nell’essenza del calcio, che si snoda in 132 pagine che si leggono tutte d’un fiato, parte dal ricordo del “Grande Torino” e del campo “Filadelfia” che supera qualsiasi altro per leggenda e storia. Uno squadrone fermato solo dal Fato che si materializzò un giorno di maggio del ‘49 sulla collina di Superga. Nella galleria dei personaggi che Darwin Pastorin inserisce non poteva mancare Gigi Meroni, la “farfalla granata”. L’autore esalta la fantasia (“qualcosa che rende un gesto abbagliante, bellezza allo stato puro”) attraverso il campione più grande di tutti: Maradona, il Borges del calcio. “Diego è stata la mia Odissea, il mio Don Chisciotte e la mia Divina Commedia”, scrive lo scrittore italo-brasiliano che da giovane inviato di Tuttosport, nel 1982, seguì il mitico Mundial di Spagna. Immancabile il riferimento al “gordo della Pampa”, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, che nel ’79 segnalò ad Arpino il futuro “pibe de oro” quando militava ancora nell’Argentinos Juniors.
Alla voce “sconfitta” compaiono i giocatori della nazionale di San Marino, subissati di gol dai tedeschi ma non annientati perché “il calcio è di tutti coloro che lo amano” e non solo dei vincitori. Anzi, la vera poesia di questo sport si trova soprattutto nei “perdenti vestiti di sogno” (tra questi Pastorin indica il brasiliano Heleno del Botafogo) capaci di rialzarsi dopo una batosta. Come Roby Baggio dopo Pasadena ’94 con quel rigore calciato alto nella finale mondiale contro i verdeoro di Romario.
C’è, inoltre, Comunardo Niccolai, campione d’Italia con il Cagliari ma ricordato soprattutto come il “re degli autogol”. Pastorin ci ricorda che di autoreti si può morire: fu il destino di Andrès Escobar, nazionale colombiano, assassinato a causa di un autogol durante il mondiale statunitense del ’94. Dal baule della nostalgia l’autore estrae Pietruzzu Anastasi (il suo calciatore preferito) ed il portiere Massimo Piloni, eterna riserva juventina, chiuso in quel ruolo da un certo Dino Zoff, uno che giocava anche con un braccio rotto e che non si beccava mai un’influenza.
Pastorin rammenta agli smemorati che nel calcio come nella vita non si deve aver paura di sbagliare un rigore (“Non è da questi particolari che si giudica un giocatore”, cantava De Gregori). Gli esempi sono tanti in campo calcistico e letterario (si torna a Soriano e al rigore più lungo del mondo ma anche a Peter Handke). Il calcio metafora della vita: dopo aver smarrito la rotta con un goffo intervento sulla linea, due minuti dopo ritrovi Itaca grazie ad un gol leggendario (il 4-3 di Rivera alla Germania Ovest nel 1970). Alla voce “Mondiali” c’è il riferimento all’edizione del ‘78 organizzata dalla junta militar del fascista Videla nell’Argentina dei desaparecidos e dei centri di detenzione e tortura.
E poi, immancabile, l’epica azzurra quattro anni dopo con l’impresa del 5 luglio (contro il Brasile del futbol bailado di Santana) e il trionfo in finale a spese della Germania di Derwall, non senza aver rievocato la “Democrazia Corinthiana” del dottor Socrates e il Nobel a Gabriel Garcia Marquez. Pastorin ci indica che la via del recupero dell’autenticità di questo sport risiede nei campi impolverati di provincia, dove si vive ancora il calcio come un gioco e dove predomina, su tutto, la passione.
“Sono stato in tutti gli stadi più importanti del mondo: dal Maracanà a Wembley, dal Monumental al Santiago Bernabeu… ma avrei dovuto, nel contempo, recuperare le partite di periferie e di campagna. Non solo io: anche gli altri miei colleghi. Un bagno di umiltà avrebbe fatto bene a tutta la categoria”. Praticamente un elogio ai tanti corrispondenti di provincia, sparsi per l’Italia, che passano le domeniche a seguire il calcio minore per trenta righe, tabellino compreso, e una manciata di spiccioli. (Sertac)
Nella foto: Darwin Pastorin a Portopalo (Siracusa) dove e’ intervenuto, il 5 agosto scorso, nella rassegna “I ribelli, i sognatori e i fuggitivi narrati da Osvaldo Soriano”, inserita nel programma della XII edizione del Premio Nazionale di Giornalismo, Saggistica e Letteratura “Piu’ a sud di Tunisi”.
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