Portopalo. Quarta ed ultima parte dell’inchiesta verità sul tragico naufragio del Natale 1996 a firma del giornalista e scrittore Sergio Taccone.
PORTOPALO. Il 6 giugno 2001, l’inchiesta giornalistica del quotidiano La Repubblica riaccende i riflettori mediatici sul naufragio del Natale ’96. Quali sono gli elementi nuovi posti da questa inchiesta? Un pescatore di Portopalo, Salvatore Lupo, ha trovato nelle sue reti da pesca una carta d’identità appartenente al giovane tamil Anpalagan Ganeshu. Il ritrovamento di questo documento identificativo, a detta del pescatore portopalese, risalirebbe ad un periodo compreso tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001. Come emerge dagli articoli di Repubblica (2001) e dal libro “I fantasmi di Portopalo” (2004), il momento e le circostanze del ritrovamento di quel tesserino lasciano non poche perplessità agli organi di polizia. In un rapporto del Commissariato di Pachino del 2001 (citato anche nel libro I fantasmi di Portopalo) venne riportato quanto segue: “Questo ufficio ritiene altamente probabile che a rinvenire il documento sia stato proprio il Lupo Salvatore, non escludendosi che quest’ultimo possa essere stato uno dei pescatori che, subito dopo il naufragio, rinvennero i cadaveri. Ma vièppiù, infatti il documento in questione risulta in ottimo stato di conservazione e appare improbabile che esso sia stato rinvenuto pochi mesi orsono. Quindi è verosimile che dopo il rinvenimento sia stato conservato, piuttosto che consegnato agli organi
competenti nonostante vi fosse il fondato motivo di ritenere che esso potesse essere appartenuto ad uno dei naufraghi del Natale 1996”.
Una ragione di forte scetticismo, evidenziata anche dallo zio di Anpalagan (pag. 68 del libro “I fantasmi di Portopalo”, edizione 2004), è costituita dall’ottimo stato del documento che, sia pur plastificato, sembra essersi conservato fin troppo bene nonostante i quattro anni di azione distruttiva del mare. Lo stesso pescatore portopalese ha affermato che agli inizi del 1997, pochi giorni dopo il naufragio, si recava a pescare, con la sua barca, nella zona di mare che i pescatori portopalesi chiamano Siccagno (secca), una vasta area in prossimità della quale sarebbe avvenuto il naufragio e dove sarebbero stati pescati i cadaveri, poi ributtati in mare da alcuni pescherecci di Portopalo (12-15 barche su un totale di circa 160 imbarcazioni che allora costituivano il compartimento marittimo locale). Lupo, nell’aprile 2002, in un’intervista che confluirà nell’installazione d’arte contemporanea The Ghost Ship-Solid Sea (realizzata dal gruppo milanese Multiplicity, diretto dall’architetto Stefano Boeri) dichiara: ‹‹All’inizio del 1997, circa sette giorni dopo il naufragio, noi, pescatori di Portopalo, andavamo a pescare in un’area chiamata
Siccagno… Lì alcune barche cominciarono a pescare qualcosa, dei resti umani… ››. L’intervista venne pubblicata in lingua inglese nel sito-web www.multipliciy.it. È da ritenere un fatto eccezionale che, tra quanti all’epoca pescavano al Siccagno, proprio quel pescatore, che alla fine del 1996 ricopriva anche la carica di assessore al comune portopalese, non abbia mai avuto l’occasione di rinvenire resti delle vittime del naufragio né di avere avuto notizia, allora, sia lui sia i suoi colleghi di giunta, di macabri rinvenimenti da parte di altri marinai o di episodi analoghi.
Non è meno sorprendente che il medesimo pescatore abbia poi recuperato, tra il 2000 e il 2001, in perfetto stato di conservazione, il tesserino d’identità di una delle vittime del naufragio del Natale ‘96. Come già evidenziato prima, il Commissariato di Polizia di Pachino, competente per territorio, in fase d’indagine mise in dubbio la veridicità di alcune delle affermazioni rese dal pescatore, elemento chiave nell’inchiesta di Repubblica. Una circostanza all’apparenza marginale ma che divenne chiave nella riproposizione del caso e delle accuse di insabbiamento, insensibilità ed omertà che si sono riversate sulla comunità portopalese dopo lo scoop di Repubblica. Avuta la carta d’identità di Anpalagan Ganeshu, dopo una ricerca effettuata negli elenchi delle persone imbarcate clandestinamente nella Yioahn, arriva la conferma: il giovane tamil era a bordo della nave. A questo punto si va a caccia del relitto, nel tratto di mare in cui il pescatore portopalese aveva trovato il documento ed in cui andava a pescare all’inizio del ’97. Il 15 giugno 2001, La Repubblica mostra le immagini di una carretta del mare: per il quotidiano romano è quella affondata la notte di Natale del ‘96. È la prova dell’avvenuto naufragio. Con il relitto emerge il silenzio di quei pescatori di Portopalo che, nel gennaio del 1997, recandosi al Siccagno, trovarono nelle loro reti pezzi di cadaveri, a volte dei corpi interi. Nessuno, allora, denunciò il ritrovamento alle autorità. Perché?
L’omertà di quel ristretto numero di pescatori portopalesi che hanno rinvenuto resti di corpi
c’è stata. È importante, allora, individuarne le ragioni e pazienza se esse potranno deludere le attese del sensazionalismo, amplificato in modo stomachevole dalla fiction Rai, che in maniera un po’ contraddittoria si basa su stereotipi e schemi interpretativi preconfezionati. A dissuadere i pescatori dal denunciare i ritrovamenti di resti umani impigliati nelle reti fu soprattutto la certezza di esporsi ad un’autodenuncia, poiché la pesca a 19 miglia era vietata per molte delle imbarcazioni che si spostavano fin lì in modo illegale! Di questo particolare ha fornito testimonianza lo stesso Salvatore Lupo quando, nel corso di un’intervista rilasciata a La Sicilia nel 2001, affermò: ‹‹Probabilmente mi beccherò una multa per aver superato le dodici miglia…››. (la stessa affermazione era stata fatta dal pescatore al quotidiano Repubblica il 15/6/2001 (cfr. ‹‹Così io, pescatore di Portopalo, ho trovato la nave fantasma››). Tuttavia, nel giugno 2001, il pescatore dichiarava anche di non aver pescato alcun cadavere e di aver ritrovato solo un tesserino di riconoscimento, tra l’altro nell’aprile del 2001. ‹‹Il mio ruolo in questa tragedia è stato solo quello di aver ritrovato una tessera di riconoscimento, quella che è stata quindi pubblicata lo scorso 6 giugno sul quotidiano romano. Io ho trovato solo questa tessera che è stata quindi consegnata dal sottoscritto ad un mio amico di Roma che si è messo in contatto con il giornalista del quotidiano Repubblica, autore del reportage›› (La Sicilia – edizione di Siracusa – 23 giugno 2001).
Altro punto controverso è se il pescatore si sia rivolto o no alle autorità, senza essere creduto. Quando gli fu chiesto il perché della sua scelta di rivolgersi ad un giornale e non alle forze dell’ordine, Lupo rispose: ‹‹Temevo di non essere creduto›› (La Sicilia – edizione di Siracusa – 21 giugno 2001). Questa affermazione confermerebbe, in modo inequivocabile, la scelta del pescatore di preferire l’opzione giornalistica, senza rivolgersi alle forze di polizia né all’autorità amministrativa locale o a quella giudiziaria. Tuttavia, un anno dopo (aprile 2002), lo stesso pescatore parla di ‹‹autorità che avrebbero scoraggiato le denunce›› (intervista confluita nel lavoro di Multiplicity). Analizzando le affermazioni del pescatore, si denota un andamento ad elastico, non sempre univoco, a tratti fortemente contraddittorio (le dichiarazioni pubblicate sul quotidiano La Sicilia, qui richiamate, non sono mai state smentite né da Lupo né da altri). Nel valutare un atteggiamento che mostra incertezze ed oscillazioni, tanto da autorizzare perplessità in qualunque osservatore che si sforzasse di esaminare i fatti in modo obiettivo e scevro da pregiudizi, si possono spiegare, perlomeno, le esitazioni dei pescatori che hanno tentato di giustificare l’omessa denuncia del ritrovamento di cadaveri di naufraghi, adducendo che ciò avrebbe determinato il sequestro delle imbarcazioni e il blocco del mezzo di lavoro, con giornate perse nelle lungaggini della burocrazia. Una perdita di tempo e di denaro a cui molti pescatori non si sentivano di rinunciare. Circostanza, questa, che in precedenti occasioni si era già verificata e che, in maniera paradossale, si verificherà anche dopo (da ricordare il caso di un peschereccio portopalese bloccato per alcuni giorni dopo aver riportato un cadavere a terra nell’estate del ’96 o di un altro che, qualche anno dopo, dopo aver salvato 150 persone alla deriva andò incontro ad un’odissea giudiziaria per alcuni anni).
L’assessore Lupo. Tra la fine del 1996 e il 1998 (il periodo cruciale dell’inchiesta giudiziaria), anni in cui sarebbero dovute scattare le denunce da parte di chi sapeva o non poteva non sapere, il pescatore Lupo, l’unico, in ogni caso, della Giunta municipale portopalese a sapere (o aver saputo) e a parlare, sebbene con anni di ritardo, ricopriva la carica di assessore. Lupo, dunque, aveva a disposizione anche l’opzione istituzionale, essendo parte dell’amministrazione comunale, per portare a conoscenza dell’opinione pubblica la vicenda del naufragio del Natale ’96 poco tempo dopo la tragedia. È molto probabile, quasi certo, che già allora il pescatore fosse a conoscenza dei fatti, recandosi a pescare all’inizio del ‘97, come avrebbe dichiarato, nel tratto di mare dove venivano tirati su i cadaveri. Un suo intervento istituzionale, pertanto, avrebbe portato a galla, già pochi giorni dopo la tragedia, il ‹‹mistero dei cadaveri pescati e ributtati in mare da alcuni pescherecci››. Pochi giorni dopo il naufragio, quando tra i pescatori del Siccagno cominciava a circolare la voce dei cadaveri impigliati nelle reti e ributtati in mare, l’assessore Lupo avrebbe potuto convocare un incontro in municipio, con i rappresentanti della marineria locale e il sindaco, magari per preparare un documento ufficiale da inoltrare alle autorità competenti.
Così facendo, probabilmente, quegli anni di silenzi e di ‹‹naufragio presunto›› si sarebbero potuti evitare ed i parenti delle vittime avrebbero avuto, da subito, un appiglio in più per far smuovere i rappresentanti del Governo Italiano. Emblematico quanto ebbe a dichiarare il procuratore della Repubblica di Siracusa, Roberto Campisi, il 9 giugno 2001 al quotidiano il Manifesto: “Se i pescatori, che oggi affermano di aver ripescato cadaveri, avessero testimoniato quando furono interrogati dalla polizia su nostro mandato, le cose sarebbero andate in maniera diversa e anche il processo sarebbe cominciato prima. Invece a me fu riferito che i pescatori negavano nella maniera più assoluta le voci sul ritrovamento di alcuni corpi in quel tratto di mare. Voci che circolavano a Portopalo già nei primi giorni successivi al naufragio”. Lupo, come già detto in precedenza, nel ’97 era tra quelli che andavano a pescare in quella zona di mare. In quel periodo (tra il ’96 e il ’98) era anche assessore comunale. L’ammiraglio Eugenio Sicurezza, in un documento del luglio 2001, affermò: “Per quanto riguarda il rinvenimento di cadaveri in mare, è il caso di sottolineare che nessuna denuncia di evento straordinario, attinente a tali circostanze, risulta inoltrata alla Capitaneria di Porto di Siracusa né agli uffici da questa dipendenti che sono dislocati lungo la costa Sud-Est Siciliana (Pozzallo, Portopalo, Scoglitti)”.
Il peschereccio di Lupo Ha fatto spesso capolino nei giorni scorsi, avvicinandosi la messa in onda della fiction su Rai 1, la circostanza che Lupo abbia dovuto vendere il peschereccio andandosene dal paese perché l’aria si era fatta pesante. Trovata non nuova, veicolata già nel novembre 2004 quando si parlò di “esilio su una petroliera”. Si parlò, allora, di silenzi che isolano e rappresaglie che non fanno più vivere. Nei giorni scorsi si è parlato – in alcuni articoli e interviste – del testimone/eroe costretto a vendere il peschereccio. Dove sta la verità? Il signor Salvatore Lupo già nel giugno 2001, in “tempi non sospetti”, aveva inoltrato la richiesta di demolizione del suo peschereccio, poco tempo dopo la riapertura dei termini per fruire dell’indennità di demolizione da parte del Ministero. Il pescatorearmatore presentò, dunque, regolare richiesta all’ufficio locale marittimo: nessuna persecuzione ma, da parte di Lupo, semplici e legittime valutazioni di natura economica, scelte di opportunità o necessità che nulla avevano a che vedere con ritorsioni persecutorie, presunte o reali, da mettere in relazione ad eventuali conseguenze dello scoop. Il peschereccio verrà demolito circa un anno dopo la richiesta, con erogazione dell’indennizzo previsto dalla legge.
Oltretutto, Lupo nel 2001 ricopriva anche il ruolo di istituzionale di consigliere comunale, questa volta però dai banchi dell’opposizione, avendo perso le elezioni amministrative del 1999. Dunque, Lupo era ancora un personaggio politico locale. A Portopalo c’è tantissima gente onesta che dal giugno 2001 si è vista trasformare in “radicalmente omertosa”. Si dica che tanti portopalesi (che non hanno mai ricoperto cariche pubbliche a livello municipale) hanno fatto per gli immigrati più di quello che hanno fatto a loro tempo (dal 1996 al ‘99) ex amministratori di Portopalo di cui si è parlato troppo e troppo eroicamente. E così, riconoscendo, ammettendo e confessando, si dica anche che non c’è stata alcuna persecuzione nei confronti del pescatore (testimone) mentre ve ne è stata una, interminabile e vergognosa, contro Portopalo, per le infinite vie dell’universo mass-mediatico nazionale ed internazionale, con pochissime eccezioni. Se non c’è stata – come non c’è stata, né c’è – alcuna persecuzione verso il signor Lupo, si ha tutto il diritto di pensare che si sia insistito nel creare un caso umano per mantenere desta una querelle su Portopalo che non ha alcun motivo di essere.
Il parroco Al termine di questo lungo viaggio, in cui abbiamo fatto luce su quegli aspetti del naufragio del Natale ’96 tenuti nell’ombrase non travisati nella fiction di Rai 1, due parole le merita il parroco, quel don Calogero Palacino da Raddusa che ormai da alcuni anni non è più a Portopalo. Un prete che si è sempre impegnato nell’accoglienza dei migranti, aiutando i sofferenti e i poveri che bussavano alla porta della parrocchia. Quali le colpe di don Palacino? Ha osato ribellarsi al marchio di omertà assegnato alla comunità locale nel 2001. Un delitto che lo ha trasformato in macchietta per spettacoli di “teatro incivile” e in essere riprovevole per fiction buone solo a ribadire il regresso di certe produzioni televisive dall’alto indice di share. Palacino è stato un parroco sempre ostinatamente deciso a prendere sul serio la tonaca che porta e che nella lunga parentesi portopalese si è impegnato senza sosta per la sua comunità: per l’unità delle famiglie, per offrire agli adolescenti un percorso di crescita religiosa e umana, in stretta collaborazione con la scuola e le istituzioni locali. Che ha promosso gruppi di volontariato attivi in campo sociale e nella ricerca storica locale. “Ho sempre detto, sin dal giugno 2001, – afferma don Palacino – che bisognava rivolgersi a chi amministrava il paese in quegli anni, che bisognava chiedere a loro conto del silenzio che si era formato su quella tragedia. Per questo sono stato trasformato in una sorta di mostro. Qualcuno ha anche scritto che pretendevo i soldi delle offerte sotto la statua della Madonna. Tutti sanno che non sono mai stato attaccato al denaro. Ho vissuto e continuo a vivere da povero, come insegna Gesù. E mi sono battuto per il recupero del relitto e dei corpi di quel naufragio. Da Portopalo mi feci promotore di una raccolta di firme. Ne raccogliemmo circa 1.100, tantissime per una piccola comunità come la nostra. Firme che poi inviammo in Parlamento. Mi ero reso disponibile a destinare una parte del nostro territorio quale luogo di preghiera e di memoria perenne dei morti del naufragio del Natale ’96 e di tutte le vittime senza nome che hanno perso la vita durante la traversata del Mediterraneo”. Ai tanti che l’hanno denigrato sulla stampa, sul web, a teatro e in televisione, don Palacino rivolge solo una frase: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
“Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti”
San Paolo, Seconda Lettera ai Corinzi
Sergio Taccone Giornalista e scrittore, autore del libro “Dossier Portopalo, il naufragio della verità” (Ginevra Bentivoglio EditoriA, Roma, 2008), vincitore nel 2009 del Premio Internazionale di Giornalismo “Maria Grazia Cutuli”, promosso dal Corriere della Sera con l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica Italiana, “per aver contribuito a ricostruire la tragedia del mare del Natale 1996, in cui persero la vita 300 migranti al largo delle coste dell’isola” (Ansa, 27/10/2009). Il libro “Dossier Portopalo” ha ispirato anche il documentario “Il viaggio di Adamo”, regia di Guido M. Coscino e Giuliano La Franca, realizzato nel 2009.
L’intera inchiesta in quattro puntate è basata sul libro di Sergio Taccone “Dossier Portopalo, il naufragio della verità” (Ginevra Bentivoglio EditoriA, Roma, 2008).
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